La rivolta contro Napoleone del 1806
IL DOMINIO NAPOLEONICO SUL DUCATO DI PARMA E PIACENZA
Tutelato da un’effimera neutralità, il Ducato di Parma e Piacenza poté sopravvivere alla prima campagna di Napoleone in Italia (1796-1797): mentre i territori confinanti (Reggio, Genova, Milano) si convertivano rapidamente in repubbliche giacobine, presidiate dalle armi francesi, il piccolo stato emiliano conservò una fragile indipendenza sotto la dinastia dei Borbone. La situazione peggiorò tuttavia rapidamente: sconfitta la Seconda Coalizione austro-russa (1799-1802), Napoleone si aggiudicò infatti il controllo di Piacenza e Parma, e ne affidò il governo al plenipotenziario Moreau de Saint Mery: pur conservando simbolicamente il proprio trono e il proprio rango, il duca Ferdinando di Borbone venne di fatto destituito. Ormai privato di ogni potere, il Borbone morì pochi mesi più tardi (1802), e in molti sospettarono che fosse stato avvelenato per ordine del Bonaparte. In effetti, i motivi di ostilità tra l’ex duca Ferdinando e Napoleone non mancavano: sebbene le milizie ducali non avessero mai combattuto contro le armate franco-repubblicane, Ferdinando di Borbone era pur sempre nipote di Luigi XV e primo cugino di Luigi XVI (il re di Francia ghigliottinato); per giunta il ducato di Parma e Piacenza era legato ad un trattato di alleanza difensiva con l’Austria, appunto in funzione anti-francese.
Con la scomparsa dell’ex duca, il territorio di Piacenza e Parma fu annesso alla Francia come “Dipartimento del Taro”: tale rimase fino alla caduta di Napoleone (1814), quando il ducato fu ricostituito e affidato prima al governo di Maria Luigia d’Asburgo (vedova di Napoleone e figlia dell’imperatore Francesco I d’Austria) e poi ancora ai Borbone fino all’Unità d’Italia (1859).
LA RIVOLTA DEL 1806
La dominazione francese introdusse innegabili e preziosi elementi di modernità economica, sociale e politica nella società piacentina e parmense, ancora assai legata ai modelli dell’Antico Regime, ormai anacronistici. Tale rinnovamento trovò un’accoglienza tutto sommato positiva presso le élite cittadine, in particolare tra i ricchi borghesi e presso gli esponenti più illuminati della nobiltà, che beneficiarono dei cambiamenti introdotti dall’impero francese consolidando i propri ruoli sociali. Il nuovo regime trascurò invece i ceti popolari, sia urbani che agricoli, le cui condizioni non soltanto rimasero di fatto miserevoli, ma addirittura peggiorarono a causa delle frequenti guerre e dei relativi obblighi militari: le famiglie contadine subivano infatti il sequestro di muli, di animali da soma e di bestiame destinato alle truppe francesi, e moltissimi giovani (le cui braccia erano indispensabili per il lavoro nei campi) venivano arruolati nelle armate di Napoleone in forza della leva obbligatoria (non prevista dal vecchio regime ducale). Tali vessazioni fomentavano un malcontento già profondamente diffuso, radicato, e cavalcato dai preti di campagna che indottrinavano i loro parrocchiani, devoti e superstiziosi, all’odio contro le tendenze laiche e anticlericali del governo francese.
In tale contesto, la tensione esplose il 6 dicembre 1805 nella cittadina di Castel San Giovanni (PC), dove molte giovani reclute, ammassate in attesa dell’invio al fronte, si ammutinarono ai loro ufficiali: nei tafferugli che seguirono vi furono alcuni feriti, e l’amministrazione francese cercò di calmare gli animi consentendo addirittura il ritorno a casa agli insubordinati. Tale decisione incoraggiò lo scoppio di ulteriori tumulti e diserzioni, che sfociarono rapidamente in una vasta ribellione.
Se è vero che la rivolta esplose nelle cittadine di pianura (dove le truppe venivano ammassate in attesa di partire per il fronte), è però nelle valli dell’Appennino piacentino-parmense che i ribelli poterono trovare rifugio e supporto logistico, ingaggiando così una violenta guerriglia contro le truppe napoleoniche. La resistenza fu particolarmente accanita nell’alta Val d’Arda, ossia l’antica “Val Tolla”; lo conferma il principe Charles Francois Lebrun, alto funzionario di Napoleone, il quale sulla “Gazzetta di Genova” dell’8 gennaio 1806 scrisse testualmente che:
«la Valle di Tola (Tolla), sugli Appennini (…) era denunziata come centro dell’insurrezione».
Pur nella sua violenta deflagrazione, la rivolta anti-napoleonica della Val d’Arda fu comunque di breve durata, e si esaurì nell’inverno 1806: in quelle poche settimane, i ribelli riuscirono tuttavia a respingere ripetutamente gli assalti delle forze francesi, meglio armate ma del tutto impreparate ad una guerra fatta di imboscate, di trappole e di agguati in un territorio quasi completamente sconosciuto e privo di efficaci vie di comunicazione. Dalle fonti dell’epoca (ad esempio i dispacci militari francesi) emerge che gli insorti erano organizzati in vari reparti, ognuno dei quali aveva un proprio comandante (in evidente similitudine con quanto sarebbe avvenuto, quasi un secolo e mezzo dopo, durante la Resistenza partigiana). Tra i nomi dei capi ribelli si ricordano ancora oggi: Andrea Cavazzuti (o Cavaciuti), conosciuto come “il duca di Val Tolla”, le cui milizie operavano nella zona di Pedina di Morfasso (PC); Paolo Ferri, “capitano” dei rivoltosi accampati a Bacedasco di Vernasca (PC); Giuseppe Bussandri, “generale” dei ribelli attestati nei pressi di Scipione (PR) e di Salsomaggiore (PR); e infine Giuseppe Gandolfi, originario di Vigoleno, comandante di un distaccamento di insorti.
LA REPRESSIONE DELLA RIVOLTA
Superato l’iniziale smarrimento, le truppe francesi si riorganizzarono al comando del generale Andoche Junot, fedelissimo di Napoleone. L’imperatore francese aveva ordinato ai suoi ufficiali di agire con la massima severità e crudeltà: le sue disposizioni
includevano ad esempio la fucilazione indiscriminata dei ribelli catturati e dei rispettivi familiari, oltreché l’incendio e il saccheggio di interi villaggi, come Salino di Morfasso (PC) e Mezzano Scotti (Bobbio, PC). Le operazioni militari travolsero anche il borgo di Vigoleno, dove alcuni distaccamenti dei ribelli si erano arroccati in attesa di rinforzi: determinate a stanare e a catturare gli insorti, le truppe francesi accerchiarono il paese e aprirono il fuoco con le loro artiglierie, bombardando le antiche mura medievali.
Forte della sua potenza militare, il regime napoleonico riprese il controllo della Val Tolla e dei territori limitrofi entro la fine dell’inverno 1806; alle operazioni militari si sostituirono quindi gli arresti, i processi e le pubbliche esecuzioni dei comandanti ribelli catturati. Tra i nomi dei condannati si ricordano: il “generale” Giuseppe Bussandri, di 30 anni, fucilato il 2 maggio 1806; il “duca” Antonio Cavazzuti, di 34 anni, fucilato il 28 aprile 1806; e i due “capitani” Giuseppe Gandolfi di Vigoleno, fucilato l’11 febbraio 1806, e Marco Villa di Sperongia (Morfasso, PC), fucilato il 28 aprile 1806.