La Pieve di San Giorgio - decorazione
ELEMENTI SCULTOREI
La pieve di S. Giorgio conserva ancora oggi numerose e pregevoli testimonianze di Scultura medievale, prevalentemente assegnabili al lessico romanico dei secoli XII e XIII. Tra le opere di maggior pregio si deve certamente includere la grande lunetta raffigurante “S. Giorgio che uccide il drago”, collocata sopra la porta di ingresso alla pieve: l’impostazione della scena, e dei vari personaggi che la animano, esprime l’ispirazione classicista tipica dell’Arte romanica, così denominata proprio perché fondata sulla rielaborazione dei canoni culturali recuperati dall’antica monumentalità romana. Sempre di gusto romanico (sec. XII) sono anche i due telamoni antropomorfi, posti a sostegno dell’architrave in pietra sotto al quale si apre la porta. Nella lunetta del “S. Giorgio che uccide il drago”, in particolare, gli studiosi riconoscono quegli stessi modi e quelle stesse tecniche espressive che caratterizzarono la celebre Scuola di Piacenza: con questo nome gli studiosi indicano diversi artisti (piacentini ma non solo) che nel secolo XII operarono un efficace connubio tra gli stili figurativi dei due grandi magistri Wiligelmo e Nicolao, protagonisti assoluti della Scultura romanica italiana, entrambi attivi nelle decorazioni della Cattedrale di Piacenza.
Proseguendo all’interno della chiesa, le raffigurazioni scultoree si concentrano soprattutto sulle colonne e sui relativi capitelli: di particolare interesse risulta la terza colonna a destra dell’ingresso, sulla quale si nota un piccolo rilievo scolpito con tre figure umane pressoché identiche, rappresentate nell’atto di tenersi per mano: è opinione di molti studiosi che tale iconografia simboleggi la “Santissima Trinità” (Padre, Figlio e Spirito Santo), sintetizzata dalla metafora dei tre personaggi tra loro equivalenti e inseparabili, assorbiti in una comune identità sacra. Al di sopra del rilievo si nota un pregevole capitello, totalmente lavorato con figure antropomorfe e animali, alcune delle quali sono riprese dal repertorio della mitologia classica (ad ulteriore conferma dell’ispirazione che l’Arte romanica intrecciava con l’Antichità greco-romana): evidente in tal senso è la “Sirena bicaudata”, che rielabora in chiave cristiana l’antico riferimento omerico alle tentazioni della lussuria, esortando i fedeli a non abbandonarsi ai peccati carnali.
Sulla seconda colonna a sinistra dell’ingresso si riconosce invece l’incisione di una “Rosa Comacina”, simbolo sacro di antichissima origine pre-cristiana, assai frequente nelle chiese romaniche sorte lungo la Via Francigena (o sulle sue principali varianti di percorso): a partire dal secolo XII, la raffigurazione della rosa comacina nei luoghi di culto cristiani (spesso in abbinamento con croci di varia foggia e geometria) si trova infatti associata ad uno stretto legame culturale con i pellegrinaggi verso Roma e verso la Terrasanta; la presenza di tale simbolo contribuiva quindi ad identificare tutti quei luoghi che sorgevano lungo un tracciato di pellegrinaggio, e che potevano perciò offrire ospitalità e conforto ai viandanti in transito: in tal senso, la pieve di Vigoleno, sorta lungo una bretella minore della Via Francigena (che dall’abbazia di Chiaravalle, presso Alseno, saliva fino a Bardi in Val Ceno), non faceva eccezione. Al di sopra della “Rosa Comacina” si riconosce invece lo “Stemma nobiliare della famiglia Scotti”, scolpito sulla colonna dopo che il casato ottenne la piena signoria su Vigoleno dall’anno 1404. Sempre al dominio feudale degli Scotti risale anche l’elegante “Tabernacolo” in pietra ricavato lungo il pilastro che separa l’abside maggiore dalla sua omologa sinistra: il suo ricco apparato decorativo, nel quale compare anche lo stemma di Casa Scotti (al centro del basamento), presenta modi e riferimenti iconografici tipici del secolo XV, epoca in cui gli Scotti stavano appunto consolidando la propria signoria sul borgo di Vigoleno, da poco ottenuto in feudo per concessione dei Visconti di Milano.
ELEMENTI PITTORICI
All’interno della pieve di S. Giorgio si possono ammirare pregevolissime pitture murali datate al secolo XV. L’opera che più colpisce, sia per la qualità esecutiva che per la sua posizione privilegiata, è il grande affresco raffigurante “S. Giorgio che uccide il drago”, visibile sulla parete interna dell’abside maggiore.
Il dipinto, datato al primo Quattrocento, raffigura il Santo titolare della pieve ritratto come un cavaliere in armatura, in sella al proprio destriero, impegnato ad uccidere il Drago sottostante (simbolo del Male) per salvare una giovane dama in abito rosso (personificazione della Chiesa). Se il soggetto è quindi ascrivibile ad un contesto sacro e devozionale, è però altrettanto vero che l’opera si fa portatrice anche di contenuti laici e cortesi, legati alla promozione sociale dei feudatari che ressero Vigoleno nel secolo XV. E’ infatti al mecenatismo dei nobili Scotti che si deve la realizzazione del grande dipinto absidale, completato dagli affreschi dei due livelli superiore nei quali riconosciamo una “Incoronazione della Vergine” (sulla volta del catino) e una “Annunciazione” (sull’arco trionfale): nell’ultima raffigurazione, appena al di sotto del colmo del tetto, si legge l’immagine di un pellicano che punge il proprio petto per farne sgorgare sangue come nutrimento per i suoi piccoli: tale iconografia, simbolo di generosità, si trova spesso come cimiero araldico sopra gli stemmi di Casa Scotti, e conferma quindi il patronato e il mecenatismo della dinastia feudale nel ciclo pittorico dell’abside. Attraverso la raffigurazione di S. Giorgio, icona del cavaliere cristiano, gli Scotti volevano infatti celebrare la loro stessa promozione alla nobiltà cavalleresca e cortese, da poco ottenuta con l’investitura del feudo di Vigoleno (1404); prima di allora, e per lungo tempo, gli Scotti erano stati infatti ricchi mercanti e uomini d’affari nei ranghi della borghesia comunale piacentina: assai potenti e facoltosi, certo, ma pur sempre di ceto popolare. Il nuovo prestigio sociale, appena conquistato, andava quindi
sottolineato attraverso una intenzionale e specifica iconografia artistica e araldica: anche lo stemma del casato venne infatti elaborato con evidenti allusioni alla cavalleria, collocandovi due rondelle di altrettanti speroni con i quali si spronavano i cavalli al galoppo, durante la carica contro i nemici.
Di gusto più popolare, e di dimensioni più modeste, sono invece i lacerti pittorici sopravvissuti lungo le pareti delle navate laterali e su alcuni pilastri; ascrivibili sempre al Quattrocento, tali raffigurazioni appartengono alla sfera religiosa e devozionale, legata per lo più all’invocazione di Santi la cui venerazione era piuttosto diffusa all’epoca: tra i tanti, riconosciamo ad esempio un “S. Antonio Abate” (terzo pilastro sinistro), antico patrono chiamato a protezione contro il doloroso Herpes Zoster (detto perciò “Fuoco di S. Antonio”); o ancora i “Santi Cosma e Damiano” (navata sinistra), medici miracolosi raffigurati con i rispettivi strumenti chirurgici. Degna di nota è anche una “Crocifissione” (accanto al dipinto precedente), nella quale si nota la presenza di Maria Maddalena ai piedi della Croce, mentre un angelo raccoglie nel Graal il sangue che sgorga dal costato di Cristo; sempre lungo la parete sinistra, a circa metà della sua lunghezza, si nota un dipinto
piuttosto grande nel quale compare la “Vergine che allatta il Bambin Gesù” insieme ad un “Papa che regge nelle sue mani i due corpi di S. Pietro e di S. Paolo” : pur con qualche incertezza, nell’anonimo Pontefice gli studiosi vogliono riconoscere il francese Urbano V (1310-1370), passato alla Storia proprio per aver ordinato la traslazione delle teste dei Santi Pietro e Paolo nella basilica di S. Giovanni in Laterano, e per aver tentato di riportare la sede papale a Roma durante gli ultimi tre anni del suo pontificato.